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Congedi lavorativi e convivenza: le indicazioni dell’INPS
I congedi straordinari di due anni, disciplinati dall’articolo 42, comma 5, del Decreto Legislativo 151/2001, sono – assieme ai permessi lavorativi mensili previsti dall’articolo 33 della Legge 104/1992 – una agevolazione lavorativa di grande interesse per i familiari di persone con grave disabilità.
Secondo i dati di un recente monitoraggio del Ministero per la Funzione Pubblica, il ricorso a questi congedi retribuiti è in netto aumento. La causa è da far risalire alle più recenti pronunce della Corte Costituzionale che hanno ampliato notevolmente la platea dei potenziali beneficiari.
Infatti, se la norma istitutiva (Legge 388/2000, articolo 80, comma 2) ammetteva al beneficio solo i genitori di persone con handicap grave e – in casi eccezionali – i fratelli e le sorelle conviventi con il disabile, due successive Sentenze della Corte Costituzionale (n. 158/2007 e n. 19/2009) hanno esteso anche al coniuge e ai figli la facoltà di avvalersi del congedo retribuito di due anni.
In entrambi i casi la Corte ha posto come condizione la convivenza con il familiare da assistere, prerequisito che già valeva per fratelli e le sorelle. Per i figli che assistono i genitori – va sottolineato – la Corte aggiunge anche un’altra condizione: i congedi possono essere concessi «in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave».
Ma come va dimostrata la convivenza? È necessaria la effettiva residenza che risulta dallo “stato di famiglia” o è sufficiente il “domicilio”?
In effetti la Corte, rifacendosi alla stessa norma istitutiva, parla genericamente di “convivenza”, senza entrare nel merito delle più precise definizioni del Codice Civile che distingue nettamente fra residenza e domicilio.
In verità è la norma che andrebbe riscritta contemperando sia il diritto della persona con disabilità a farsi assistere che il dovere di contenere ed evitare elusioni ed abusi.
Nel frattempo, però, il problema applicativo sussiste e a settembre 2009 è arrivata la prima interpretazione da parte dell’INPS proprio sulla questione della convivenza.
Si tratta di una interpretazione molto netta, discutibile, ma che va sicuramente inquadrata nel panorama più vasto delle indicazioni fornite dall’Istituto.
Prima di illustrare le più recenti indicazioni dell’INPS riguardo alla convivenza, torniamo ad una precedente Circolare dell’INPS – la 41 del 16 marzo 2009 – che riassumeva, alla luce della recente Sentenza della Consulta (n. 19/2009), le nuove indicazioni operative relativamente alla concessione dei congedi lavorativi.
Come già detto su queste colonne, quella Circolare lascia favorevolmente sorpresi per le indicazioni che assai largheggiano rispetto alle indicazioni della Corte Costituzionale.
I congedi, secondo l’INPS, possono essere concessi ai figli conviventi della persona con handicap grave anche se nel nucleo vi sono altri familiari che non lavorano e in grado di assistere la persona con disabilità.
Quindi, ad esempio, se in una famiglia convivono un genitore disabile, la moglie di questi casalinga, tre figli di cui due disoccupati ed uno lavoratore, quest’ultimo avrà diritto a chiedere due anni di congedo lavorativo.
L’INPS, quindi, non considera l’indicazione già citata della Corte Costituzione secondo cui i congedi possono essere concessi ai figli lavoratori solo «in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave».
Fa da contraltare all’ampiezza di concessioni derivante dalla Circolare 41/2009, il Messaggio INPS n. 19583 del 2 settembre 2009 che chiarisce, appunto, il concetto di “convivenza”, dopo aver consultato il Ministero del Lavoro.
Il Messaggio sancisce che alla luce della necessità di una assistenza continuativa, per convivenza si deve fare riferimento, in via esclusiva, alla residenza, luogo in cui la persona ha la dimora abituale, ai sensi dell’articolo 43 del Codice Civile, non potendo ritenersi conciliabile con la predetta necessità la condizione di domicilio né la mera elezione di domicilio speciale previsto per determinati atti o affari dall’articolo 47 del Codice Civile.
Se l’indicazione – al di là che possa essere condivisa o meno – è chiarissima, rimangono alcuni coni d’ombra formali che questa redazione non è riuscita a illuminare.
Il Messaggio non riporta il parere formale del Ministero del Lavoro. Nel sito del Ministero del Lavoro non vengono riportate – al momento di andare in stampa – risoluzioni o circolari su questo aspetto. Il che è piuttosto strano vista la rilevanza della fattispecie.
Non è cosa di poco conto: se fosse formalizzato il parere del Ministero del Lavoro, quell’interpretazione potrebbe essere applicata anche nell’ambito della Pubblica Amministrazione e per tutti i lavoratori indipendentemente dal fatto che siano assicurati con l’INPS o presso altri Istituti.
Vediamo ora due casi tipo, per tentare di comprendere i risvolti operativi – per ora per i soli assicurati INPS – che quel Messaggio comporta.
Il primo. Un lavoratore, residente a Treviso assieme ai genitori di cui uno con handicap grave, viene trasferito per lavoro a Roma. Mantiene la sua residenza nella città veneta, ma trascorre il suo tempo nella capitale. Richiede due anni di congedo risultando residente con i genitori: il beneficio deve essergli concesso?
Il secondo. Un lavoratore, residente a Roma, riesce a trovare lavoro a Treviso, sua città di origine dove vivono i suoi genitori, uno dei quali disabile grave. Assume il domicilio presso di loro, ma mantiene la residenza nella capitale. Richiede il congedo retribuito di due anni: il beneficio deve essergli concesso?
L’INPS non richiede la presentazione del certificato anagrafico di residenza, ma chiede al lavoratore una dichiarazione di responsabilità in cui si sottoscrive la convivenza intesa come dimora abituale comune alla persona da assistere. L’INPS, cioè, guarda alla sostanza della situazione e non alla formalizzazione “anagrafica”.
Pertanto, nel primo caso, il lavoratore non ha diritto al congedo e se dichiara la convivenza, cioè la comune dimora abituale con la persona da assistere, commette un falso, con tutto ciò che ne consegue.
Nel secondo caso, invece, il lavoratore ne ha diritto, dichiarando il vero se afferma la comune dimora abituale con il familiare da assistere.
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