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Galleria SPAZIOSEI
via S. Anna, 6
promuove
dal 14 ottobre al 19 novembre 2006
Info: 080.80.29.03 cell. 339.61.62.515 email. spaziosei@alice.it
Nel 1976, per concorso, è nominato titolare della cattedra presso l’Accademia di Firenze, ma il suo amore per la Puglia lo spinge ad abbandonare la Toscana per insegnare pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bari fino al 1996.
La sua personalità pittorica si impone in manifestazioni artistiche importanti: la Biennale di Venezia del ’56, la Quadriennale di Roma del ’59 e molte altre.
La mostra rientra nell’ambito della Giornata del contemporaneo 2006, organizzata dall’AMACI - Associazione Nazionale Musei Arte Contemporanea Italiani, e presenta tredici ritratti che il Maestro Depalma ha realizzato nell’arco di tempo che va dal 1950 al 2006, selezionati da Mina TARANTINO, curatrice della mostra.
«Marcella, Vanna, Maria, Kicchi, Anna, Roberta, Lucia, Michela, Adele …dodici volti di donne e la faccia di un uomo, Bruno, nella mostra “ritratti per amore” che, dagli anni Cinquanta ad oggi, propone mezzo secolo di ritratti al femminile.» scrive in catalogo la dott.ssa Anna D’ELIA, critica e storica dell’arte. «Fedele alla tradizione cara a molti artisti, da Rembrandt a Boccioni, il Volto - anche per Michele Depalma - è quello materno. Madre che cuce 1950 dà inizio alla carrellata, è un quadro che celebra l’interieur: gli affetti familiari vissuti negli spazi domestici. Michele ha 22 anni, è allievo della scuola di pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli di Emilio Notte, di cui diventerà assistente.
La figura, abito nero su uno sfondo ocra, ha tra le mani un panno rosso. E’ compatta, racchiusa dentro un contorno protettivo e rassicurante, anche il rapporto con la modella lo è. E’ bastato un solo giorno di posa per dipingere quel volto i cui tratti erano impressi da sempre nella memoria, non uno ma tanti, quanti ne sono trascorsi su quella faccia, la più cara.
La somiglianza tra il volto dipinto e quello che il pittore ha di fronte è accentuata: per non dimenticare. Nell’istante in cui Michele mi mostra il quadro, affiora sulla sua faccia il ricordo del giorno in cui l’ha realizzato.
“ - La tela - resiste mi dice carezzandola più che toccandola - è una di quelle di sacco che rubavo nel pastificio di mio padre, preparata alla maniera antica”-.
Ma la ricerca pittorica avanza velocemente per il giovane artista che si confronta con la tradizione pittorica modernista e guarda Matisse, Cezanne, Modigliani, Picasso e da ognuno attinge, misurandosi con i grandi maestri a ritmo di spatole. Dalla sfida nasce Marcella 1955, la geometria del colore è quella di Cezanne, vi è affidata intermente la costruzione della forma, ma è la luce che dilata le schegge e, ad ogni vibrazione, i piani di colore si deformano e si animano. Moti dell’anima? Lo conferma lo stesso Michele quando gli chiedo quale rapporto lo leghi alle sue modelle, il cui volto è sempre calibrato su tonalità diverse di colore.
-“ Da cosa dipende la dominante cromatica? Dalla tipologia di donna, al rapporto che ti lega a lei, oppure il colore è una variabile esterna che scaturisce dalle tonalità scelte per lo sfondo? “-
L’abito bianco di Adele è solo un contrappunto al vaso di fiori che è sulla sua destra oppure è l’unico colore in grado di rappresentare quel tipo di donna?
La domanda si rafforza dinanzi ai ritratti del 1956. Li accomuna la fusione tra primo piano e sfondo, in maniera tale che gli arabeschi della carta da parati lambiscono il viso e decorano l’abito, mentre quest’ultimo scivola verso la parete con tonalità in dissolvenza.
Nell’atelier di Michele, sulla terrazza bianca di calce, su cui il mare spruzza grumi di salsedine, sono appoggiati al muro, pezzi di quelle stoffe che, molti decenni fa, lui stese dietro il volto delle sue modelle, perché facessero da fondale, confondendo i loro colori con quelli dei capelli e dei vestiti.
-“Ogni ritratto nasce dal sentimento che si nutre per la persona che posa ed è sempre una qualche forma d’amore. Ma è anche vero che i corpi che mi attirano sono quelli più legati al mio stato d’animo che, per me, coincide sempre con un colore”-.
Gli arabeschi, le schegge di materia pittorica, la figura scomposta e ricomposta, prima per piani di colore poi per tessiture segniche sono alcune delle forme del linguaggio sempre più libero che il ritrattista può concedersi, da quando la verosimiglianza è un problema obsoleto, una condizione non più necessaria per chi dipinge volti e figure, è lo stato d’animo interiore che occorre catturare e basta un tonalità più intensa di giallo o di verde e blu, direttamente sulla faccia per dire il disagio o l’ebbrezza. E’ la fotografia ad aver affrancato il pittore dall’obbligo della Verità apparente, consentendogli di catturarla nel fondo, lì dove più si cela. Ciò che resta va cancellato o coperto, perché la pittura, in quanto maschera, sveli del volto l’invisibile: l’anima.
Una ricerca che spinge verso l’interiorità non solo in chiave psicologica, anche un paesaggio, un oggetto, dopo la rivoluzione espressionista, sono guardati con gli orbite rovesciate all’interno.
In questa ottica un dettaglio delle figura finisce, talvolta, per assumere in sé tutti i connotati del personaggio ritratto, com’è ad esempio, nel ritratto di Vanna (1956) in cui una mano abnorme penzoloni si congiunge idealmente con un occhio chiuso accentuando il ghigno tragico che si riverbera intorno.
Si colloca nel 1952, l’unico ritratto maschile dedicato all’amico e incisore, Bruno Starita, di cui viene accentuato il profilo in chiave drammatica. Un occhio a Bruno e l’altro ad Amedeo Modigliani, modello ideale, accanto al soggetto in posa.
Si possono individuare fin qui almeno tre fasi, che si sviluppano nell’arco di dieci anni, dai Cinquanta ai Sessanta: il passaggio è dalla forma chiusa dai toni spenti, alla forma aperta e inondata di luce. Un passaggio scandito dalla perdita della visione realistica che segue ora la lezione di Matisse, ora quella di Cezanne e Picasso. Ma, si farebbe un torto al pittore, se accanto alla tradizione della pittura d’Avanguardia non si citasse quella del Romanico Pugliese e della cultura contadina con la sua arcaica essenzialità, dalla quale media le volumetrie asciutte e statuarie di certe figure: prima fra tutte quella terrosa e solenne dedicata a Maria Palligiano che conobbe a Napoli, dapprima studentessa all’Accademia, poi sfortunata moglie di Emilio Notte. I due ritratti a lei dedicati, entrambi del 1958, la mostrano solenne nelle sembianze di arcaiche divinità mediterranee, dee delle fertilità, simbolo dell’eterno femminino.
Il ritratto di Anna del 1958 raggiunge l’acme nel processo di geometrizzazione della figura: la struttura è l’elemento portante, anche quando viene cancellata dal colore e diventa costruzione invisibile dietro il panneggio cromatico.
Michele ha trent’anni è l’età delle certezze, delle verità indiscutibili, che non tollerano incrinature, ma il dubbio è in agguato.
Gli anni Sessanta segnano una tappa decisiva : è la fase postcubista, esemplificata dal ritratto di Kicchi la pianista, del 1965. La figura perde le spigolosità delle precedenti costruzioni e si arrotonda in un corpo morbido e accattivante, la dominante cromatica è l’azzurro.
Da questo momento in poi la figura diventa un pretesto per accendere il caleidoscopio delle forme e dei colori arroventati dalla luce pugliese e dall’età che avanza accendendo le passioni. Libertà per il colore e canto libero nel volto di Lucia 1980 illuminato di innocente malizia, in cui il contorno rosso delle labbra si congiunge a quello del fondo, in una polifonia cromatica che lega alla figura il cosmo.
E, infine: Michela. E’ il 2000. La stilizzazione è estrema, al volto le ultime pennellate tornite, perché dicano del naso e degli zigomi, della fronte e della bocca, il corpo è quasi scomparso, sciolto nel colore.
E’ con un tremito nella voce che l’artista poggia l’ultima tela sul cavalletto, lo stesso che non è riuscito a dissimulare tra le ciglia della scarna e scarnificata modella.»